IL SENTIERO DEI NIDI DI RAGNO
regia Paolo Bignamini
alla fisarmonica Katerina Haidukova
lettura scenica con Stefano Annoni
adattamento e aiuto regia Giulia Asselta
produzione Teatro de Gli Incamminati e Nidodiragno produzioni
Descrizione
All’indomani della Seconda Guerra Mondiale, in un momento in cui creare una «letteratura della Resistenza» era una questione aperta e scrivere «il romanzo della Resistenza» si configurava come un imperativo e, prima che «fatto d’arte», era «fatto fisiologico, esistenziale, collettivo», Calvino sceglie di raccontare l’esperienza partigiana «di scorcio», attraverso gli occhi di un bambino, Pin, un monello del carrugio, sboccato e candido al tempo stesso, ingenuo eppure furbo, spavaldo, provocatorio, ruvido e, a volte, persino perfido. In questo modo, l’indicibile, il troppo grande, le tragedie, gli eroismi, gli impensati slanci, le lacerazioni e i tormenti delle coscienze diventano inaspettatamente un mondo scanzonato, quasi allegro. Come scrisse Pavese nella postfazione al romanzo, «l’astuzia di Calvino, scoiattolo di penna, è stata questa, di arrampicarsi sulle piante, più per gioco che per paura, e osservare la vita partigiana come una favola di bosco, clamorosa, variopinta, “diversa”».
La storia è semplice, un bambino ruba a un soldato tedesco la pistola; di qui nasce tutto il resto: la prigione, la fuga e l’incontro con gli uomini del distaccamento del Dritto. Sono uomini strani, grotteschi, di provenienza e mestiere differenti che nel romanzo diventano maschere, pennellate che arricchiscono e restituiscono colore, sapore e ritmo diversi a una vicenda nota.
Dietro a ogni gesto di Pin c’è il disperato desiderio di far parte di un mondo: con i bambini non riesce a stare, non lo capiscono, li fa arrabbiare, le madri li tengono lontani da lui. Con gli adulti per un po’ è facile, si destreggia tra uno scherzo e l’altro, canzoni di violenza e di amore gridate fino all’ultimo fiato, e un’infinita riserva di improperi e trivialità con cui bersaglia chiunque gli capiti a tiro. Ma arriva sempre il momento in cui gli adulti diventano di colpo distanti, si fanno incomprensibili e cattivi, si rivelano ipocriti e traditori, e allora Pin non trova altra soluzione che la fuga, una fuga che ha il sapore tragico delle cose che non hanno possibilità di rimedio.
Ogni volta Pin corre via con un nodo alla gola che gli toglie il respiro e un vuoto dentro lo stomaco che lo fanno sentire più solo che mai. Allora torna nell’unico luogo dove tutto di nuovo può tornare possibile, un luogo che conosce solo lui, dove i ragni fanno il nido, un luogo magico dove può finalmente essere chi vuole, far quello che vuole, sognare quello che vuole, persino un amico con cui condividere questo segreto.
Raccontare la Resistenza dagli occhi di un monello in un mondo di «ladruncoli, carabinieri, militi, borsaneristi, girovaghi», «tarati fisicamente, o fissati, o fanatici», «gente che s’accomoda nelle piaghe della società, e s’arrangia in mezzo alle storture», è per Calvino l’unico modo per non rimanere schiacciato dal peso della responsabilità a rendere conto di un momento così cruciale di un’epoca e per scongiurare il pericolo di fare una letteratura celebrativa e didascalica, di «direzione politica», fatta di eroi postivi e «immagini pedagogiche di condotta sociale, di milizia rivoluzionaria». Solo così per l’intellettuale diventa possibile raccontare la propria storia e la storia collettiva, al di là della retorica, sfidando «i detrattori della Resistenza» e «i sacerdoti d’una Resistenza agiografia ed edulcorata». «L’inferiorità che prova Pin come bambino di fronte all’incomprensibile mondo dei grandi corrisponde a quella che nella stessa situazione provavo io, come borghese» – scrive Calvino – «Il sentiero dei nidi di ragno è nato da questo senso di nullatenenza assoluta, per metà patita fino allo strazio, per metà supposta e ostentata. Se un valore oggi riconosco a questo libro è l’immagine d’una forza vitale ancora oscura in cui si saldano l’indigenza del “troppo giovane” e l’indigenza degli esclusi e dei reietti».